La parola “harem” deriva dal termine arabo harām che significa illecito, peccaminoso, proibito dalla legge; al contrario la parola halāl indica ciò che è permesso. Forse, equivocando tra i due termini, in Occidente l’harem viene associato a un vergognoso segreto, all’euforia, al sesso senza limiti, a un luogo in cui è possibile ottenere piacere dalle donne senza che queste possano opporre alcuna resistenza essendo ridotte in schiavitù.
Per tentare di comprendere l’harem e fugare quell’alone di mistero che da sempre ne preclude agli occidentali una visione obiettiva, fondamentalmente a causa della diversità culturale fra i due mondi, è importante distinguere gli “harem imperiali” dagli “harem domestici”. I primi esistevano quando l’imperatore e il suo entourage disponevano di potere e denaro sufficienti a comprare schiavi dai territori conquistati e a mantenere e gestire splendidi e sontuosi palazzi. Questo è, evidentemente, il tipo di harem che ha contribuito ad alimentare le fantasie occidentali. L’harem domestico, invece, è sopravvissuto alla colonizzazione occidentale e si configura come una moderna famiglia allargata in cui non ci sono schiavi e non è scontato che gli uomini abbiano più di una moglie. L’harem, quindi, non è tale in quanto vige la poligamia, ma perché strutturato sulla decisione maschile di vivere tutti nella stessa casa e sulla pretesa che le donne debbano rimanere recluse.
In Occidente, la parola “harem” ha acquisito solo il significato di “sesso senza problemi”, suffragata dalle immagini che di esso hanno proposto quadri e film; basti citare Delacroix (Donne di Algeri) Matisse, Picasso, Toulouse-Lautrec Ingres (Grande Odalisca, Bagno Turco, e persino Giuseppe Verdi nella sua Aida, per i quali le donne (le odalische, parola che in turco significa schiava) appaiono in abiti succinti, felici di essere rinchiuse, nude e passive.
Negli harem arabi, invece, gli uomini si aspettano che le donne reagiscano con forza ai loro progetti di piacere; il confronto cerebrale è indispensabile per raggiungere il piacere. Samar, per esempio, è un’abilità tutta femminile, che significa parlare nella notte quando il conflitto diurno si attenua ed è così potente l’incantesimo del delicato invito al dialogo che la donna rivolge all’uomo nella quiete notturna che difficilmente il suo corpo riuscirebbe da solo a suscitare lo stesso interesse.
Comunque, come contraltare al controllo da parte maschile, le donne investono nell’istruzione e nelle abilità professionali: musica, danza e poesia per poter essere notate dal padrone dell’harem ed emergere sulle altre. Il principe musulmano non riesce a trarre piacere da una ragazza fisicamente attraente ma stupida ed è qui che si annida la trappola fatale dell’harem: un uomo innamorato rischia di divenire schiavo della sua ğāriyya (in arabo “schiava nell’harem”).
La seduzione tramite un intenso scambio verbale in cui la ğāriyya usa corpo e cervello si ritiene provochi nel principe un piacere molto più intenso. Spesso nell’harem le donne vivevano la grande frustrazione di dover dividere il loro uomo con le altre e poteva succedere che tale sentimento le portasse addirittura a uccidere la preferita.
L’Islam vieta l’arte visiva durante i riti religiosi ma ha una grande tradizione di pittura profana. Nelle miniature, di solito, i pittori musulmani rappresentano donne in atteggiamenti battaglieri, oltre a narrare leggende e poesie d’amore; un’occasione questa per esprimere le loro fantasie sulle donne, sull’amore, sulla passione e sui suoi rischi; le raffigurano nell’atto di cavalcare, armate di arco e frecce e vestite di abiti pesanti.
(Fonte: L’harem e l’Occidente di Fatema Mernissi, Giunti Editore, 2009)
(Fine prima parte)