Il settore della moda islamica (cioè rivolta ai fedeli di religione musulmana, residenti o meno in Paesi islamici) nel 2018 ha realizzato un fatturato di 322 miliardi di dollari. Si prevede che nel 2019 venga superato l’importo di 360 miliardi di dollari. Il mercato della moda musulmana, quindi, è secondo solo a quello degli Stati Uniti, che genera 494 miliardi di dollari.
Ben si capisce dunque come sempre più i grandi marchi internazionali della moda (per tutti Valentino) abbiano rivolto la propria produzione ai consumatori (e in particolare alle donne) di cultura musulmana.
Nel mettere a punto le proprie politiche commerciali le aziende del settore si sono trovate in primo luogo di fronte a un bivio:
1 – proporre alle donne musulmane gli stessi modelli creati per i Paesi “occidentali”;
2- innovare, adattando i canoni propri dell’abbigliamento tipico musulmano (comunemente indicato con il nome dell’indumento simbolo e cioè l’hijab, il velo, o più recentemente, anche “MODA MODESTA”) alle tendenze del momento, creando così nuovi stili.
È apparso subito evidente che un’offerta rispettosa dei canoni della Moda Modesta avrebbe consentito di attrarre una clientela di gran lunga più importante sia per numero sia per capacità di spesa.
Ciò premesso, cercherò qui di seguito di illustrare brevemente cosa si intende per MODA MODESTA: in primo luogo occorre precisare che l’aggettivo “modesta”, come meglio spiegato più avanti, non si riferisce al “valore commerciale” dell’abbigliamento (che al contrario può anche essere incredibilmente sfarzoso) quanto alla riservatezza che è richiesta alle donne musulmane nel fare mostra del proprio corpo.
In Occidente c’è una visione spesso stereotipata delle donne musulmane, represse e coperte da vestiti scuri dalla testa ai piedi: è una rappresentazione realistica (sia pure prevalentemente nei Paesi “integralisti”) ma spesso parziale che non tiene conto delle tante donne che vogliono sentirsi belle e alla moda pur rispettando le regole di abbigliamento “halal” o “modesto”. Tali regole richiedono abiti non aderenti e non trasparenti che coprano gran parte del corpo. Neslihan Cevik, ecclettica donna turca fondatrice del marchio di moda halal M-Line Fashion, spiega che “all’interno di alcuni standard di modestia le donne musulmane hanno centinaia di esigenze diverse, che sono aumentate negli ultimi anni e rispondono in parte alle necessità di quelle tra loro impegnate in attività pubbliche o che lavorano fuori casa”.
La “Modest fashion” è estremamente variegata; comprende infatti stilisti con gusti diversissimi tra loro che si intrecciano con quelli dei Paesi cui è rivolta: dall’Africa del Nord all’Asia, dagli Stati Uniti alle minoranze nelle città europee. Reina Lewis, professoressa al London College of Fashion, spiega che l’espressione si è diffusa nella metà degli anni Duemila quando nacquero i primi marchi disegnati da stilisti “con motivazioni religiose”. Non ha un significato univoco e, dice la stilista Hana Tajima (inglese, di madre giapponese e padre inglese) “ognuno ha la sua idea di cosa voglia dire”. In generale indica l’attenzione delle donne, per motivi religiosi, di appartenenza culturale o a volte semplicemente estetici, a coprire alcune parti del corpo.
I capi principali sono la abaya, la tunica che lascia scoperti solo volto, mani e piedi, e l’hijab, il velo che lascia scoperto il viso. Questi capi vengono oggi prodotti anche in colori accesi e fantasie brillanti, con ricami, perle e tessuti preziosi. La modestia infatti, vale la pena ripeterlo, non riguarda il pregio di tessuti e accessori; per esempio a Dubai la stilista italiana Isabella Caposano, che vanta tra i suoi clienti la famiglia reale saudita, ha presentato un abito fatto a mano che costa 30mila euro.
I marchi halal poi non si rivolgono solo a donne musulmane ma vengono acquistati anche da ebree ortodosse che portano vesti fino alle caviglie e il capo coperto, in cerca di uno stile sobrio ed elegante.
Il settore della moda islamica (cioè rivolta ai fedeli di religione musulmana, residenti o meno in Paesi islamici) nel 2018 ha realizzato un fatturato di 322 miliardi di dollari. Si prevede che nel 2019 venga superato l’importo di 360 miliardi di dollari. Il mercato della moda musulmana, quindi, è secondo solo a quello degli Stati Uniti, che genera 494 miliardi di dollari.
Ben si capisce dunque come sempre più i grandi marchi internazionali della moda (per tutti Valentino) abbiano rivolto la propria produzione ai consumatori (e in particolare alle donne) di cultura musulmana.
Nel mettere a punto le proprie politiche commerciali le aziende del settore si sono trovate in primo luogo di fronte a un bivio:
1 – proporre alle donne musulmane gli stessi modelli creati per i Paesi “occidentali”;
2 – innovare, adattando i canoni propri dell’abbigliamento tipico musulmano (comunemente indicato con il nome dell’indumento simbolo e cioè l’hijab, il velo, o più recentemente, anche “MODA MODESTA”) alle tendenze del momento, creando così nuovi stili.
È apparso subito evidente che un’offerta rispettosa dei canoni della Moda Modesta avrebbe consentito di attrarre una clientela di gran lunga più importante sia per numero sia per capacità di spesa.
Quanto alla nascita del concetto di Moda Modesta, è interessante la storia di Rabia Z, che è forse la stilista di moda halal più famosa e che iniziò la sua carriera nel 2001 quando viveva negli Stati Uniti. Al suo esordio dichiarò: “Subito dopo l’11 settembre molte mie amiche, date le circostanze, iniziarono a togliersi l’hijab. Io non volevo e visto che già frequentavo il mondo della moda decisi di crearmi da sola gli hijab e i vestiti. Piacquero anche agli altri e così li misi in vendita online. Da allora le richieste dei clienti non si sono fermate e, lo ammetto, non avrei mai pensato che non ci fosse nessuno a creare abiti per milioni di donne musulmane”. Tra le stiliste più importanti nel settore della Moda Modesta vale la pena menzionare anche Luya Moda.
Intanto grandi magazzini, marchi economici e di alta moda hanno iniziato a vendere collezioni per le donne musulmane. Nel 2014 DKNY confezionò una Ramadan Collection, seguita da Tommy Hilfiger, Oscar de la Renta, Victoria Beckham, Zara, H&M, Mango e Uniqlo. Nike ha lanciato uno hijab creato appositamente per le atlete musulmane, Dolce & Gabbana una linea di veli e occhiali da sole coordinati (che in verità non ha ottenuto grande successo). La catena di grandi magazzini americani Macy’s ha messo in vendita online una linea di abbigliamento per appassionate di moda musulmana che comprende tuniche dal collo arricciato, tute morbide e cardigan lunghi fino alla caviglia.
Il rischio per i marchi occidentali è pensare di rivolgersi a un mondo compatto, il mondo musulmano in quanto tale, senza tener conto delle sue mille sfaccettature culturali e di gusto. Un altro problema, scrive Business of Fashion è risultare credibili e guadagnarsi la fiducia dei clienti musulmani senza imporre dall’alto un abbigliamento stereotipato. Il modo migliore per trattare la Moda Modesta, aggiunge, è considerarla una categoria stilistica più che culturale e religiosa, al pari dello streetwear, dell’abbigliamento da cerimonia o per l’ufficio.
Dai numeri sopra riportati si evince l’interesse di molte aziende occidentali per il mondo della moda musulmana. In Europa, Londra è all’avanguardia e nel febbraio del 2017 fu organizzata proprio lì la prima Modest Fashion Week. Il Guardian la descrisse come un evento affascinante dall’una e dall’altra parte della passerella, con donne tra il pubblico in tuniche di seta e turbanti, mantelli di pelle e gioielli al naso o lunghi kimono fruscianti, a osservare modelle in burkini e hijab, burqa colorati, pantaloni a palazzo di velluto, tute in colori pastello e abiti da sera degni di un romanzo di Fitzgerald.
Bisogna anche ricordare che la Moda Modesta non coincide necessariamente con le scelte di abbigliamento di tutte le donne musulmane, e che nel mondo islamico è in corso un vivace dibattito proprio sul modo di vestire delle donne e in particolare sul velo. In Iran (dove il velo è obbligatorio per tutte le donne, anche quelle non musulmane e quelle straniere in visita nel Paese), levarselo anche per pochi minuti è un modo per affermare la propria libertà: esattamente il contrario di quel che accade in Francia o in alcuni Stati americani, dove invece indossarlo è, almeno in teoria, una scelta personale. Quando nel 2013 venne lanciato il World Hijab Day per invitare tutte le donne, a prescindere dalla religione, a indossare il velo per un giorno, molte musulmane organizzarono una campagna opposta, il #nohijabday. Di recente si è inserito nel dibattito anche il potente Principe saudita ed erede al trono Mohammed bin Salman (MbS, come viene chiamato) dicendo che le donne sono libere di vestirsi come vogliono, a patto che siano decenti e rispettose.
Anche le riviste di moda stanno contribuendo a questi cambiamenti. Nel 2017 già Allure, prima di Vogue britannico, aveva messo in copertina la modella Halima Aden con il velo. A portare al centro del dibattito la Moda Modesta di lusso è soprattutto Vogue Arabia, rivista fondata nel marzo 2017 e distribuita in Arabia Saudita, Bahrain, Qatar, Kuwait, Oman, Emirati Arabi Uniti, Libano e Giordania. Solo per i primi due mesi è stata diretta dalla principessa Deena Aljuhani Abdulaziz, da maggio 2017 è invece guidata da Manuel Arnaut e finanziata da Condé Nast insieme a Nervora, un’azienda di comunicazione di Dubai. A contribuire alla sua diffusione è stata anche la costatazione della sempre crescente attenzione degli investitori sauditi al lusso e all’abbigliamento. Oltre a essere il punto di riferimento della moda musulmana Vogue Arabia cerca di spezzare gli stereotipi dall’una e dall’altra parte e portare avanti un confronto interessante. Per la Festa della Donna, per esempio, è stato pubblicato un video con donne musulmane di tutto il mondo che, con o senza velo, spiegavano cos’era per loro la modestia: un modo di vestire ma soprattutto una condizione interiore, nel rispetto di tutte.
Tra coloro che non hanno gradito la scelta imprenditoriale di Dolce & Gabbana c’è anche buona parte della stampa araba.
Il sito Arabnews, infatti, in un lungo articolo ha raccolto i commenti di stilisti e giornalisti arabi di moda che hanno bocciato la collezione glamour in versione islamica.
“Si tratta di cattiva pubblicità che va in una direzione artistica molto povera. Le modelle scelte non vanno bene e gli abaya sono passati di moda”, ha dichiarato la stilista saudita Nabila Nazer, aggiungendo che i capi di questa collezione non sono adatti alle donne del Golfo perché “lo stile in cui gli stilisti propongono di indossare l’hijab non è il nostro, è troppo sofisticato”. Tra le critiche, infine, l’affondo di molti follower che hanno scritto su Istagram che Dolce & Gabbana hanno fallito “Avessero studiato meglio il mercato, avrebbero saputo che queste cose per noi non sono una novità. Ci piace l’idea ma non il modo in cui è stata realizzata”.
Dello stesso avviso, Ghalia Mahmoudi, fashion blogger araba molto famosa, riguardo al tentativo di andare incontro ai gusti delle donne musulmane e in generale delle donne del Golfo: “L’area dei Paesi del Golfo rappresenta il mercato più grande per i marchi di fascia alta, quindi cercare di soddisfare i bisogni di questa clientela, da un punto di vista imprenditoriale rappresenta la cosa più logica da fare. Non sono rimasta colpita dalla collezione, lo stile non è di lusso come quello degli abaya disegnati dagli stilisti locali. D&G è un marchio di alto livello, ci si aspetta un design per le élite ma non penso che le élite del Golfo investiranno su questi capi se possono trovare di meglio a livello locale”.