Una corretta esposizione e interpretazione della condizione della donna nell’Islamdeve necessariamente prendere le mosse dal periodo preislamico.
Nella società araba preislamica nascere donna significava “disonore” per la famiglia. In alcune tribù si preferiva addirittura seppellire le neonate che farle vivere e magari non poterle mantenere. La donna era disprezzata ed oppressa, non aveva diritti e a lei non spettava alcuna forma di eredità familiare. Era considerata un “oggetto” e merce di scambio o trattativa in caso di matrimonio. Una volta sposata era proprietà esclusiva del marito che ne stabiliva a suo piacimento regole comportamentali e persino alimentari. Se restava vedova rientrava tra i beni materiali degli eredi maschi del marito.
Poteva essere violentata in battaglia, poteva essere “prestata“ ad altre tribù per migliorarne la razza e, se presa prigioniera, era spesso obbligata a prostituirsi per arricchire i nuovi padroni.
Il materiale che possediamo non ci permette di formare un quadro completo e chiaro della religione del periodo preislamico: tutto ciò che sappiamo deriva da dichiarazioni di scrittori greci, da poche iscrizioni greche o semitiche, da raccolte di poeti antichi.
Molto credito va altresì accordato a due studiosi musulmani dei primi secoli dell’Islam che hanno faticosamente raccolto e notizie e testimonianza: la figura di Ibn al-Kalhi rimane a tutt’oggi la maggior fonte per la comprensione della religione araba preislamica; la conformità alla pratica religiosa sembra nascere da una inerzia tribale dettata più dal rispetto per le tradizioni che da una autentica devozione a una divinità pagana (Bibliografia di Lawrence M.F. Sudbury).