I recenti terremoti in Turchia e in Siria hanno provocato fino ad ora circa 41mila morti, numero destinato a salire, se non raddoppiare come ritiene l’ONU.
La devastazione provocata è negli occhi attoniti di tutti: i due sismi, con magnitudo 7,8 e 7,5 della scala Richter, si sono verificati a 9 ore di distanza uno dall’altro. L’epicentro del primo terremoto è localizzato nel sud-est della Turchia, a circa 30 km dalla città di Gaziantep, a una profondità di circa 20 km. Il secondo terremoto, invece, ha colpito poco più a nord di Kahramanmaras a una profondità di 28 km.
Definito il terremoto più forte avvenuto in questa area negli ultimi 24 anni (probabilmente occorre risalire al 1939 per registrarne uno maggiormente devastante), in Siria si è sommato alla guerra che dura ormai da undici anni e di cui non si vede la fine.
La guerra siriana ha già causato (si stima) oltre 350.000 morti ed il bilancio è stato altresì aggravato dalla pandemia Covid che ha colpito con particolare violenza anche a causa di un sistema sanitario molto fragile: basti qui ricordare che solo il 2 per cento della popolazione è stata vaccinata.
Oltre a Gaziantep in Turchia (dove è crollato anche il castello costruito tra il II e il III secolo dall’Impero Romano), tra le zone più colpite c’è la città di Aleppo in Siria e la zona di Iblib, ultima sacca della ribellione anti-Assad.
Nelle zone sotto il controllo del governo di Damasco sono immediatamente affluiti i soccorsi (con l’Italia che è stata la prima ad intervenire) ma lo sforzo umanitario trova ostacolo nelle sanzioni cui la Siria è sottoposta.
La questione ha anche un importante risvolto politico, perché Assad sta evidentemente cercando di cogliere l’“opportunità” del terremoto per ottenere il reintegro nel sistema internazionale, a partire dalle relazioni con i Paesi arabi. A questo proposito, sul Wall Street Journal il politologo emiratino Abdulkhaleq Abdulla ha previsto che la “diplomazia degli aiuti aprirà la strada alla diplomazia politica”: credo che lo auspichiamo tutti.